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Alla strada maestra del metodo, si sa, convengono ordine, precisione e principi distintivi. Ma producono conoscenza, e non di rango inferiore, anche gli sviamenti, gli attimi di pura fascinazione per ciò che non stavamo cercando e che ci viene incontro con la felice impertinenza della casualità interpellandoci come un enigma esigente. Georges Didi-Huberman sperimenta in ogni suo saggio quanto sia proficuo inoltrarsi nei sentieri laterali, indugiare sulle irregolarità, prestare attenzione agli scarti. Se gli oggetti che predilige Didi-Huberman sono accidentali e spuri, questo libro vuole saldare il debito con la loro generosità di cose apparenti, minime, e tuttavia insostituibili nel chiamare in causa interi mondi. Hanno l'aspetto di ramoscello e di foglia secca degli insetti-stecco. O trapelano dal particolare informe di un dipinto, i fili rossi che scendono a rivolo nella Merlettaia di Vermeer. Non è il gusto del dettaglio - quasi indistinguibile dal feticcio - a ispirare l'accostamento di questi oggetti a prima vista eterogenei, bensì la consapevolezza che la for del visibile vive di apparizioni e di evanesce di affioramenti e di sparizioni. Un pensier all'altezza delle immagini deve avere la modestia di adattarsi al loro regime incostante. Forse solo così ritroverà la pregnanza che inseguiva.